Viviamo in tempi particolari. Dal punto di vista delle politiche economiche, oltre ad aver vissuto una recessione sicuramente paragonabile per molti suoi versi alla Grande Depressione del ’29, siamo in fase di sperimentazione: la diatriba tra keynesiani/monetaristi e scuola austriaca è infuocata e aperta. I tassi sono a zero e saranno mantenuti così fino a che le economie non saranno in una fase di accelerazione della ripresa, in quanto in una situazione di bassa crescita le banche centrali non possono permettersi di rinnovare il proprio debito se non a tassi infimi, pena un rapido ritorno agli inferi del rapporto debito/PIL. Ora, questo da un lato svuota di ogni significato di investimento la parte bond, o almeno così dovrebbe per l’homo rationalis, in quanto A) i titoli pubblici con rating accettabile garantiscono solo di perdere potere di acquisto reale a scadenza, in quanto un’inflazione inferiore all’1.5% che oggi rende il Bund, fra dieci anni è ipotizzabile solo in presenza di un liquidity crunch deflattivo stile Giappone; B) i corporate hanno stretto tantissimo in termini di rischio di credito e prezzano il rischio tasso in modo totalmente incongruo in prospettiva (ma questo è comune a tutto il mondo bond, ormai mitridatizzato dai mamba delle banche centrali e devoto sacerdote della perpetuazione degli zero rates). Gli unici che hanno un po’ di valore sembrerebbero i bonds dei paesi emergenti, visto che anche i governativi dei paesi europei considerati periferici (Italia, Spagna) e gli high yield bonds hanno ormai drenato gran parte del proprio valore.
In una recente conferenza stampa della Fed, la Yellen ha segnalato che la Fed – pur rientrando gradualmente dal QE – manterrà i tassi di interesse vicino allo zero fino alla fine del 2014. Se mantiene la sua parola, entro la fine del 2014 il governo degli Stati Uniti avrà goduto di tassi di interesse vicino allo zero per sei anni di fila. Draghi sta partendo adesso (con il consueto passo lento della BCE rispetto all’interventismo della FED) in un QE europeo. Tutto questo intervento pervasivo probabilmente spiega una grandissima fetta della performance positiva del mercato azionario fino ad ora e potrebbe spiegare una continuazione del rialzo, pur in presenza di valutazioni che su molti mercati ormai non sono certo a buon mercato. La verità è che in questo momento non c’è nessuno al mondo che osi o possa sfidare le Banche Centrali, che hanno una potenza di fuoco infinita in quanto possono stampare moneta e sostenere a oltranza i mercati. Le Banche Centrali fanno quello che devono per forzare il rifinanziamento del debito esistente con altro a basso costo, perché in questo modo si va a ridurre il debito statale futuro.
Le Banche Centrali, peraltro, sanno che nei prossimi due anni devono aumentare i tassi e che dovranno preparare i mercati e non farli scendere di colpo: il risveglio improvviso del sonnambulo che vive nel suo mondo è un momento assai pericoloso e foriero di choc.
La verità è semplice: gestire i soldi non è mai facile ma gestire il denaro oggi è un’impresa infinitamente più difficile di quando i corporate bonds rendevano il 5%, i BTP decennali il 7% e gli High Yield oltre il 10%. I gestori hanno enormi difficoltà oggettive a gestire i soldi con un free risk prolungato pari a 0%.
La necessità di rientrare dai costi e la pulsione all’ottenimento della performance come compensazione all’assenza di rendimento cedolare stanno forzando nei gestori una metamorfosi: da gestori, a speculatori che si basano sulla speranza di guadagnare. La speranza sui mercati è pericolosa e porta alla deificazione di concetti letali, come quelli del “put” delle Banche Centrali a eterno sostegno dei mercati.
I mercati vanno alla ricerca dell’equilibrio, quando ci sono disequilibri tra volatilità e redditività: in questo senso, l’allocazione ottimale è decisa dalla matematica, non dagli economisti, non dalle Banche Centrali e men che meno dai guru. Il lavoro del gestore deve essere quello di rispettare un rapporto accettabile tra rendimento oggettivo (non presunto) e rischio, cioè volatilità. L’alternativa è di cadere nella stessa spirale di “rischio a ogni costo” di un management messo costantemente davanti alla scelta “guadagnare di più o essere licenziati”, come accadeva nel mondo finanziario negli anni precedenti al 2008. Da adesso in avanti, o si opera con ottica di puro trading oppure qualunque asset va acquistato solo su correzione: anche se non ci sono le precondizioni per crolli, è venuto meno su quasi tutte le classi di asset quel rapporto minimo tra rendimento e volatilità storica che è alla base della convenienza strutturale.
Sono il creatore del Composite Momentum e di numerosi altri modelli quantitativi e indicatori di analisi tecnica. CSTA (Certified SIAT Technical Analyst) e MFTA (Master of Financial and Technical Analysis), il livello più alto riconosciuto dall’associazione mondiale IFTA. Vincitore di premi, tra cui il John Brooks Award e due edizioni del SIAT Award, sono fondatore della Market Risk Management (marketrisk.it), società leader nei servizi di advisory indipendente (cicliemercati.it). Attualmente ricopro cariche istituzionali all’interno di IFTA e SIAT. Per chi fosse interessato qui c’è il mio profilo completo.